Quando la cura è nella relazione.
Il più efficace fattore di cambiamento psicoterapeutico, trasversale ai diversi orientamenti, è la relazione tra il professionista e il paziente. Ci si riferisce ad essa con molti termini: motivazione, collaborazione, compliance, alleanza. Si tratta dell’impegno di entrambi come due scienziati che osservano lo stesso esperimento usando lenti diverse, ma andando nella stessa direzione con l’obiettivo di agire verso il bene del paziente, in base ai suoi specifici e personali bisogni e potenzialità.
Possiamo considerare alcuni elementi costitutivi della relazione terapeutica, che deve essere:
· asimmetrica: il professionista è responsabile dell’andamento del percorso, perché il paziente porta e manifesta il suo problema, per cui chiede aiuto, a un professionista che ne è esperto e ha gli strumenti e le competenze per risolverlo. In quest’ottica si comprende il dislivello di potere su cui si collocano i due protagonisti dell’intervento, supportato dalla cornice del setting e delle sue regole;
· biunivoca: basata sulla reciprocità, sull’influenza reciproca, tra due persone, esseri umani, che interagiscono come sistemi complessi aperti verso il cambiamento in modo armonico;
· significativa: la relazione si fonda sulla fiducia e rappresenta una base sicura e un rifugio emotivo; suoi presupposti sono, quindi, l’accoglienza, l’accettazione, il rispetto dei confini, l’assenza di giudizio. Solo in questo modo si costruisce uno spazio di apertura, condivisione e co-costruzione di significati su di sé, sugli altri e sul mondo;
· emozionante: il coinvolgimento del professionista e del paziente genera un’attivazione neurofisiologica e mentale che predispone e solidifica l’apprendimento “caldo”, incarnato e duraturo.
In psicologia si parla di “Genitore sufficientemente buono” (Borgogno, 2020) per riferirsi alla posizione psicologica del terapeuta nell’incontro con il paziente, sottolineando come il suo ruolo sia caratterizzato dal coinvolgimento generoso, dall’elargizione di tenerezza, da amore e rispetto, dal rispecchiamento e dal contenimento prototipicamente associati alla figura genitoriale.
Il processo di cura viene riconosciuto nello strumento principe della relazione specifica, intra/intersoggettiva, emotivamente profonda, assimilabile a quella di attaccamento, sulla cui costruzione e continua negoziazione è il focus attentivo, come sull’espressione esplicita e implicita dei membri della diade, sulle loro emozioni e anche sul coinvolgimento personale del terapeuta.
Ai fini del discorso che si sta qui conducendo, è rilevante la centralità attribuita alla sintonizzazione emotiva, a un livello profondo in cui si incontra l’altro e si diventa “noi” pur senza perdere la propria integrazione e identità (definibile identificazione introiettiva), associata ad una tensione alla tenerezza (Sullivan, 1953), che porta a non fermarsi alla sintonizzazione emotiva e a orientarsi verso l’altro, ad azioni appropriate al servizio dei bisogni dell’altro, illuminando senza abbagliare in un clima di protezione (sorpresa sicura, nuova realtà percettiva, specchio transizionale, personalizzazione di un significato non saturato).
In quest’ottica è evidente che l’interpretazione freudiana (contenuto esplicitato da accettare perché verità personale profonda scoperta mediante un lavoro archeologico condotto dal terapeuta) lasci spazio alla negoziazione, alla collaborazione, al ruolo attivo del paziente che può raggiungere un’armonica vita soggettiva e intersoggettiva basata sulla coesione del sé e sull’autoanalisi.
L’idea di terapeuta asettico è stata ormai ampiamente superata: non solo è inevitabile, ma l’utilizzo del materiale personale è un potente metodo di cura. La riflessione sui processi dell’altro non è diversa dalla riflessione sui processi personali, così come il progressivo procedere verso livelli di maggiore astrazione e di mentalizzazione auspicati per i pazienti, i progressivi avanzamenti di sempre ulteriori livelli di consapevolezza non vanno distinti da ulteriori livelli di personale e inevitabile autoinganno, poiché a qualsiasi livello di consapevolezza siamo sempre noi a guardare la nostra realtà.
Il terapeuta stesso, dunque, è strumento di terapia. Egli potrà trasformare i suoi sentimenti in fantasie metaforiche che facciano luce su una caratteristica importante del paziente, suo, della relazione, della storia, del problema, finalizzando verso il cambiamento; egli potrà auto-svelarsi quando lo riterrà opportuno, orientandosi strategicamente, e dovrà dedicarsi uno spazio di accoglienza dei propri vissuti e del carico emotivo sperimentato in modo vicario.
Autore: Dottore Alessia D’Eugenio